CROTONE, LA RIFLESSIONE DI AGORÀ KROTON: “MONDO SORDO E SPENTO PER I GIOVANI”

 

Negli ultimi mesi, i dati emersi dal rapporto ESPAD®Italia 2024 e dalle campagne di prevenzione raccontano forte e chiaro una verità che le istituzioni locali e gran parte del terzo settore faticano persino a leggere: il fenomeno dei consumi giovanili si sta trasformando, diversificandosi e insinuandosi proprio là dove nessuno osa guardare.

Non più soltanto droghe e alcol: oggi il consumo si muove sul confine sfocato tra sostanze legali e comportamenti socialmente accettati che, tuttavia, condizionano pesantemente il percorso evolutivo e il futuro dei nostri ragazzi. Sigarette elettroniche, psicofarmaci assunti sia senza prescrizione sia sotto prescrizione, gioco d’azzardo, abuso di farmaci da banco, dipendenza digitale — tutti fenomeni in vertiginoso aumento che il mondo adulto continua a sottovalutare o a ignorare.

A Crotone, come altrove, le risposte istituzionali e di molte organizzazioni del terzo settore restano blande, spesso ancorate a vecchi modelli di prevenzione incapaci di intercettare la complessità e le nuove forme di disagio. Gli adulti—genitori, educatori, operatori sociali, amministrazioni e partiti—appaiono profondamente impreparati: inseguono lo “sballo” mentre i giovani sono spinti, invece, da una continua ricerca di senso che spesso li conduce a ricorrere all’automedicalizzazione dei sintomi, un comportamento adottato talvolta anche dagli stessi adulti, i quali negano il percorso di sofferenza dei figli perché incapaci di gestire la propria ansia di fronte al dolore altrui. Così si finisce per favorire più l’acquisizione di un approccio anestetico, immediato e talvolta emergenziale, piuttosto che la comprensione, l’elaborazione e la gestione delle cause profonde del malessere.

In relazione alla precarietà educativa degli adulti, come ricorda il sociologo Claudio Cippitelli, tra i principali esperti in Italia sul tema delle dipendenze: «Non è sufficiente dire ai giovani che il gioco o il consumo fa male, se poi non si generano spazi e occasioni reali di partecipazione, ascolto e dialogo».

La richiesta di aiuto per disagio psichico è enorme e insoddisfatta: secondo il Consiglio Nazionale dei Giovani, oltre il 70% dei giovani sente il bisogno di rivolgersi a uno psicologo, ma solo il 32% riesce ad accedere a percorsi di cura; un altro 28% rinuncia per mancanza di risorse, opportunità o per timore dello stigma. Come adulti ci ostiniamo a dare risposte puntiformi, che affrontano il singolo caso, ma senza generare un intervento complesso che prenda in considerazione le radici del problema.

I servizi territoriali sono insufficienti, mentre il “Bonus Psicologo” 2025 si esaurisce in poche ore, fatto che evidenzia ancora di più la necessità di un cambiamento radicale di intervento e che dimostra in modo inequivocabile le crescenti richieste di aiuto e le nostre risposte inadeguate. Inoltre, il rischio è di frammentare l’intervento: da un lato viene riconosciuto un bisogno ma non la continuità, e l’effetto di ciò potrebbe essere quello di interrompere la terapia nel momento in cui la persona sta ritrovando il proprio benessere psicofisico. Pertanto questo intervento si va ad aggiungere ai tanti tentativi che vengono programmati una tantum per rispondere all’emergenza.

Vogliamo continuare a focalizzarci solo sulla linea temporale del qui e ora? O siamo disposti a programmare a lungo termine? E ciò cosa comporta? Il disagio arriva spesso a livelli estremi: in Italia si contano in media 10 suicidi al giorno, 3.900 all’anno e circa 25.000 tentativi annuali. L’autolesionismo e i pensieri suicidari toccano ormai 1 adolescente su 5 e sono una delle cause più frequenti di accesso ai servizi di neuropsichiatria infantile. Le diagnosi di disturbi emotivi e psichiatrici sono cresciute oltre il 30% tra i ragazzi adolescenti dopo la pandemia.

Se ne parla troppo poco: non esistono quasi mai spazi di ascolto reale, di supporto psicologico, di dialogo attivo sulla fatica e il senso di solitudine che attraversa le nuove generazioni. Più che prevenire il consumo, sarebbe necessario accompagnare, accogliere, riconoscere le difficoltà che vivono i ragazzi e lavorare con loro sulle cause profonde del malessere. Ma soprattutto dovremmo considerare che questa sofferenza non è solo del singolo, ma ha una dimensione collettiva: riguarda gruppi, ambienti sociali, interi quartieri o contesti nei quali si concentrano esperienze, disagi e fragilità simili, e a cui non riusciamo a dare risposte capaci di migliorare davvero la qualità della vita delle comunità.

Come sottolinea Felice di Lernia, antropologo ed educatore esperto di processi culturali e giovanili: “Il disagio giovanile e la ricerca di ‘rifugi’ nelle dipendenze sono spesso il risultato di una società che non offre spazi reali di valorizzazione, partecipazione e autenticità”.

Ci manca una visione d’insieme e un coraggio radicale nel ridefinire le politiche sociali: invece di insegnare a sopravvivere, e invece di “curare” le persone una ad una, come se l’individuo fosse scollegato dalla comunità, occorrerebbe educare al cambiamento del mondo—a sentirsi partecipi, responsabili, capaci di costruire prospettive nuove.

Serve una società che smetta di limitarsi a dire “non fare” e inizi a chiedere “come stai?” e il “come stiamo?”, domande che aprono la discussione alla dimensione del desiderio e del senso. Fino a quando risponderemo ai disagi dei giovani con modelli vecchi e risposte formali, continueremo a lasciarli soli in un mondo sordo e spento, privo di futuro e di vera speranza.

Claudio Cippitelli ha spesso criticato l’assenza di strategie articolate di accompagnamento sociale, ricordando: «La prevenzione non può ridursi a “campagne spot”, né limitarsi alle scuole. Deve coinvolgere tutta la comunità educante, aprendo luoghi di confronto e ripensando profondamente la relazione tra istituzioni e giovani».

Fabio Riganello

Daniela Basile

Agorà Kroton

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